giovedì 17 maggio 2018

199) I PERSONAGGI - GABOR KIRALI - Quando l'abito fa il monaco.


La leggenda narra che Gàbor fosse solito indossare, ai tempi dei suoi esordi in prima squadra nell’Haladas, un pantalone nero, di quelli imbottiti che si usano per attutire i colpi sui campi in fango, pietre e terra che popolano l’Ungheria di fine anni ’80 e inizio anni ’90. Un giorno, prima di una partita, succede il fattaccio. La mamma lava la divisa, non fa a tempo ad asciugarla e stirarla, Gábor Király deve scendere in campo con una tuta grigia, diversa dal solito. Be', la sostanza e' che con
quella tuta grigia fa un partitone, poi un altro ancora, poi un altro e un altro ancora. E quel pigiamone grigio diventa il suo portafortuna. Gábor Király comincia a girare l’Europa del football: Herta Berlino, Crystal Palace, West Ham, Aston Villa, Bayer Leverkusen, Monaco 1860, Fulham. Cambiano le squadre, non cambia quel pigiamone che Gábor infila poi nei calzettoni, per stare piu' comodo. Diventa il suo portafortuna e il suo simbolo. Diventa un’icona romantica che scalda i cuori. Noi romantici del pallone vorremmo vedere una tuta grigia, larga e sporca di fango ogni settimana e spiegare al mondo che il calcio è anche questo.Una porta, due lunghe braccia, due mani grandi e una tuta grigia. Basterebbe questo per capire che stiamo parlando di Gábor Király, 40 anni e passa nel 2016 e una voglia pazza di giocare l’Europeo con la sua Ungheria. Ungheria che quell’Europeo lo giocò per l’ultima volta nel 1972, 4 anni prima che lui nascesse. Király nasce a Szombathely il 1° aprile del 1976. Comincia a giocare nell’Haladás, dove resta fino al 1997, quando appena ventunenne si trasferisce in Germania, all’Hertha Berlino, squadra di cui difendera' la porta per otto anni, fino al 2004, giocando quasi 200 partite.  Nel 2004 sceglie l’Inghilterra. Nel giugno 2009 decide di tornare in Germania, al Monaco 1860. Con i bavaresi gioca fino al 2014 collezionando altre168 presenze in Bundesliga. Prova a tornare in Inghilterra, al Fulham, ma si ritrova in panchina a fare da chioccia. E allora, anche in vista di una possibile e storica qualificazione europea della nazionale Ungherese di cui è stato titolare inamovibile prima dell’arrivo del CT  Péter Várhidi, che gli preferisce Márton Fülöp del Sunderland FC, decide di tornare a casa, nel club dove tutto era cominciato 23 anni prima. Firma con l’Haladás e si prende il posto da titolare per riconquistare, come ha fatto, anche la maglia numero 1 dell’Ungheria. È così che è diventato il giocatore con più presenze in Nazionale, ed e' cosi' che ha conquistato il posto da titolare a Euro 2016. Kiraly e' quel giocatore che riporta lo sport ad un epoca in cui non c’era bisogno di piazzare uno sponsor su ogni pezzo di stoffa dei calciatori, dove non c’era una foto da mettere su Instagram dopo un allenamento o una partita, dove per un portiere, vista anche lo composizione dei terreni di gioco che non fossero Wembley, era anche normale mettersi dei pantaloni lunghi e salvare qualche lembo di pelle delle gambe. Sara' bello vederlo nella cornice degli ultramoderni stadi francesi accanto a giocatori come Ronaldo o Ibrahimovic, attenti ormai più al marketing che allo sport, e magari chissa', parargli un rigore con i pantaloni grigi della tuta sporchi di fango. Siamo ormai abituati ai mutamenti che il calcio ci offre ogni santo giorno. Le maglie diventano piu' attillate, i palloni colorati, le scarpe pure, e le divise dei portieri si piegano alle esigenze del Dio marketing diventando sempre più appetibili, diventando merce da esporre e vendere il piu' possibile. Il calcio, per molti se non per tutti, e' diventato un business sul cui altare sacrificare tutto il resto. Produrre, vendere, monetizzare. Eppure, qualche irriducibile romantico che ancora ci tiene attaccati a questo sport e alle sue nobili radici, pare essere rimasto. Ultimi baluardi di un calcio che sembra essere passato a miglior vita, ultime colonne d’Ercole di uno sport che non vuole vendersi alle esigenze di copione dei Signori del pallone. Le divise da gioco, dicevamo. Nuovi materiali, nuovi design, tutto studiato per convincere milioni di ragazzini a correre a comprare la maglia del loro idolo, a cambiarla ogni anno, o forse ogni sei mesi. Poi, però, arriva un portiere con il fisico da impiegato, la pancetta e i capelli che diventano ogni anno sempre di meno, e ci insegna che anche nel calcio la resistenza e' ancora possibile. Succede ogni volta che ci imbattiamo in questo quasi quarantenne che difende i pali dell’Ungheria e, nel resto dell’anno, dell’Haladas, la sua prima squadretta, quella da dove e' cominciata questa pazza storia che parla di un numero uno e della sua tuta portafortuna. Ogni volta che ci capita di dare un’occhiata a qualche partita della nazionale magiara, noi malati di pallone abbiamo solo una curiosita'. Scoprire se tra quei due pali c’è ancora lui: Gábor Király, l’uomo che ha mandato a farsi benedire l’estetica del calcio. Si, perchè da più di 20 anni, Gábor Király gioca con quello stesso pigiamone grigio, anonimo, senza marca. Portato da casa e lavato dalla mamma. Quel pantalone grigio e' l’ultimo baluardo di un calcio romantico che sta affondando. Quel pigiamone grigio e' l’ultima certezza alla quale possiamo aggrapparci noi che stiamo vivendo questa complicata fase di transizione dal calcio come sport al calcio come business. Quel pigiamone grigio e' la nostra ultima speranza.

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