Lo dirò senza girarci intorno: il campionato europeo di riferimento della mia infanzia è stato senz'altro la Bundesliga. Il muro era appena caduto ed i primi anni novanta hanno per me il marchio indelebile degli anticipi del venerdì sera su Tele+2 (quella con il logo verde). Quella del venerdì, a cavallo tra le elementari e la scuola media, era per me la serata più attesa: approfittando della solitudine domestica, potevo abbandonare le cene in cucina (dove c'era solo una vecchia televisione in bianco e nero, con tre o quattro canali generalisti, buona solo per gustarsi il Karaoke di Fiorello, oltre alla filippina che
parlava sempre al telefono) e mangiare in salotto, in santa pace, mentre a Bochum, a Dusseldorf o a Leverkusen nevicava, e un giovane Fabio Caressa mi conduceva per mano nel campionato teutonico. Qualcuno perdonerà la scarsa accuratezza filologica (ricordare il passato è come immergersi in un sogno, le coordinate spazio-temporali si sfumano), ma voglio ricordare -in ordine sparso e senza pretese di esaustività- alcuni dei protagonisti della mia infanzia di Bundesliga, secondo Gulunoglu tutt'ora il più bel campionato europeo, "perchè non si vede mai una partita brutta" La mia squadra favorita, quella per cui tifavo, per motivi a me ignoti -come sono d'altronde sempre ignote le ragioni del tifo- era il Borussia Mönchengladbach. Nessuno sano di mente tiferebbe mai per una squadra di cui non sa nè scrivere nè pronunciare correttamente il nome, eppure a me quell'insolita e très chic casacca a righe nere e verdi mi aveva conquistato. Nella Roma erano gli anni del Principe Giannini e ritrovavo nel numero otto della squadra renana, l'elegantissimo Karlheinz Pflipsen, un altro regista di cui innamorarmi. Non ho mai capito perchè Plipsen non abbia fatto una grande carriera, condannato all'incomprensione come tanti altri illustri geometri del centrocampo, che avrebbero meritato molto di più (penso, in Italia, a Peppiniello Scienza e Sergio Volpi). Terzino destro -e qui la mia memoria deve fare un vero scatto di reni- era Thomas Kastenmaier, vero carneade del pallone, che però mi è rimasto impresso per via della sua faccia quadrata (vero topos estetico tedesco) e della sua attitudine stentorea. Davanti il M'gladbach aveva due perle: Michael Sternkopf, un boro col codino che faceva la seconda punta, e l'enorme svedese Martin Dahlin, che a Roma si segnalò solo per lanciare Balbo in contropiede in trasferta a Vicenza, ma in Germania lasciò il segno. Quando Dahlin andò alla Roma il suo posto fu preso dall'ottimo Heiko Hellrich, che mi pare fu addirittura capocannoniere, tanto che poi finì al Dortmund (peraltro al povero Heiko, quando giocava in Westfalia, fu diagnosticato anche un tumore). Inutile dire che il Borussia M'gladbach non vinceva mai niente, e probabilmente fu questa sua propensione alla sofferenza che mi avvicinò alla squadra nero-verde. Il Borussia che vinceva era un altro ed era quello di Dortmund. La maglietta giallo fosforescente è per me quella indossata da Ibrahim Tanko, un sellerone africano che faceva l'esterno d'attacco e non segnava mai, e nonostante ciò con il mio amico Giovanni lo compravamo sempre a Championship Manager (perchè era uno dei pochi sempre keen on the move anche nelle nostre squadre sfigate). Devo aprire una parentesi. In anni pre-Bosman, almeno per me gran parte del fascino della Bundesliga consisteva nell'albergare tutta una serie di stranieri squallidi che, al contrario, non erano ospiti graditi negli anni d'oro della serie A. In particolare giocavano in Germania tutta una serie di buffi africani -merce esotica in Italia, dove ancora ne arrivavano pochi, scavalcati in gran numero dai sudamericani- e di strambi calciatori dell'est e del nord europa, che magari erano tedeschi dell'ex DDR però a me sembravano così diversi dal glamour della serie A, sembravano personaggi legnosissimi usciti dall'Ispettore Derrick. Ibrahim Tanko era uno di questi, perchè mai uno come Tanko avrebbe trovato posto in Italia. A fargli compagnia in attacco c'erano lo svizzero Chapuisat (che Caressa ribattezzò Chappi Chapuisat, manco fosse un cane) e l'eterna promessa Lars Ricken, in teoria un fenomeno, in pratica no. C'era un altro tridente d'attacco di cui ero un gran sostenitore ed era quello dello Stoccarda composto dal brasiliano Giovane Elber, dal tedesco Fredi Bobic e dal bulgaro Krassimir Balakov. I tre erano davvero ben assortiti: Elber -che poi farà carriera al Bayern di Monaco- possedeva un tocco raffinato ed un innato senso del gol; Bobic le prendeva tutte di testa ed era un eccellente rapinatore dell'area piccola; Balakov -che con i capelli lunghi assomigliava a Riccardo Cocciante- era piccolino e talentuosissimo, come dimostrò anche nell'indimenticabile mondiale di USA '94. Concorrente di Bobic per il titolo di bomber tedesco era il geniale Martin Max, prima punta del Monaco 1860, i cui baffetti mi sono rimasti impressi più dei suoi gol. Altra squadra che seguivo con passione era il Bayer Leverkusen capitanato da Ulf Kirsten. Ecco, uno come Kirsten è per me il prototipo del centravanti figo, il vero capitano che ci metteva sempre testa, gambe e cuore, vero marpione dell'aria di rigore, ultimo della gloriosa stirpe di bomber teutonici fatti come si deve (penso a Rumenigge, Muller, Voeller, Riedle..). Non so come ma Kirsten vinceva sempre la classifica cannonieri. Ma il vero protagonista della squadra era il leggendario Paulo Sergio, reso leggenda dal solito Caressa con la sua arci-nota telecronaca del magnifico gol del brasiliano, che si portò la palla avanti col tacco e poi segnò di sinistro (ancora rimbomba nella mia testa quel caressiano "Paaaauuuuloooo Seeeeergio". Mi piace pensare che da lì iniziò l'ascesa dello speaker romano). Infatti quando poi arrivò alla Roma ero molto contento, e nonostante odiassi le sue interviste in cui terminava sempre dicendo "no so' au siento po siento", ho di lui un bellissimo ricordo anche in maglia giallorossa.Un altro mito di quei venerdì sera era Anthony Yeboah, stella dell'Eintracht di Francoforte. All'epoca mi sembrava un super-uomo, effettivamente era di un altro pianeta; ormai invece, nell'inflazione attuale di calciatori africani, si è persa questa visione nietzschana del fuoriclasse dalla pelle d'ebano (l'ultimo probabilmente fu George Weah). Quando Yeboah prendeva palla non c'era difensore capace di fermarlo, li trascinava fino all'aria di rigore e poi faceva esplodere un siluro che il classico portiere con i capelli a spazzola non poteva fare altro che guardare conficcarsi sotto il sette. Peraltro per un certo periodo di tempo Yeboah ha fatto coppia con un altro funambolo africano quale Jay Jay Okocha, in un Eintracht mica da ridere. Un altro giocatore che mi faceva impazzire era Darius Wosz, una sorta di Vannucchi della Germania dell'Est, capace di verticalizzazioni incredibili, eclettico numero dieci del Bochum (la classica squadra yo-yo con la serie B). Infine, tra i grandi -ma i grandi mi hanno sempre interessato poco- ricorderei solo Super Mario Basler, perchè si è trattato di un personaggio più unico che raro, e Andreas Herzog, elegantissimo trequartista austriaco del Werder Brema. La Bundesliga però non era solo calciatori bizzarri ma anche un'atmosfera profondamente diversa da quella cui ero abituato in Italia. Un'atmosfera anni ottanta nei tagli di capelli, nelle cravatte e nelle divise dei dirigenti, tutto così post-muro di Berlino. C'erano poi delle magliette pazzesche. Ero affascinato dalla matricola Sankt-Pauli perchè aveva quella più orrenda che avessi mai visto, a righe orizzontali bianche e marroni. Poi c'erano questi strani sponsor di birra, queste strane città tipo Kaiserslautern (guidata dall'altro bomber coi baffi, Olad Marschall) o Dusseldorf, questi stadi sempre pieni anche quando nevicava. Già, la neve. Che peccato che la Bundesliga dovesse chiudere i battenti durante i tre mesi invernali! Ma quel letargo non era mai troppo duro perchè sapevo che presto, a farmi compagnia durante i venerdì sera di cotolette e purè, sarebbero tornati Tanko, Kastenmaier, Paulo Sergio, Yeboah, Fabio Caressa, e tutto l'allegro carrozzone della Bundesliga.
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